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Accanto alla "Critica della ragione pura" e alla "Critica della ragione pratica", la "Critica della facoltà di giudizio" è il terzo capolavoro dell'impresa critica di Immanuel Kant: non solo il suo compimento, ma anche e soprattutto il suo ripensamento e insieme la sua fondazione. È una rigorosa "critica del gusto" che ha il suo centro nell'universale comunicabilità di esseri razionali e finiti quali sono gli uomini, ed è come tale premessa essenziale dell'intero svolgimento dell'estetica successiva. Ma la riflessione che essa svolge è estetica e mediatamente anche logica, e coinvolge molti altri temi strettamente interconnessi. Sempre su base estetica, vi si delinea infatti, innanzi tutto, una modernissima epistemologia, un esame critico del finalismo che sarebbe proprio della cosiddetta "materia vivente" (del quale Kant dà una versione singolarmente avanzata per i suoi tempi e forse oggi ancora insuperata) e infine una giustificazione e delimitazione del pensare filosofico. Nell'estetica kantiana è quindi ricompreso il problema che la filosofia critica pone a se stessa, in quanto questa non è giustificata dalle condizioni del conoscere che si sforza di esplicitare ed è tuttavia indispensabile per la comprensione dell'esperienza in genere e di quella universale comunicabilità che è il lascito prezioso (e tutt'altro che assimilabile a una "metafisica della ragione") dell'illuminismo kantiano.